Su Michelangelo Cupisti. Appunti – di Lodovico Gierut

“Penso che se si vuol dedicare qualche giusta riga all’analisi della pittura di Michelangelo Cupisti, non si possa fare a meno di dire che aveva un carattere piuttosto riservato, schivo e profondamente rispettoso per gli altri, tutti gli altri.

Non ho avuto l’opportunità di approfondire direttamente, cioè di persona, la sua conoscenza, pur se in più occasioni m’è capitato di ammirarne opere, e di leggere recensioni su periodici di varia dimensione, anche versiliesi, e così ho perso un’occasione preziosa.

Le sue pitture “versiliesi” non mi sono tuttavia davvero sfuggite, sin da quando era recensito su “La Zattera”, di cui conservo in archivio qualche copia.

Per “versiliesi” intendo quelle che Cupisti ha fatto e dedicato alla meravigliosa, incantevole striscia territoriale che dalla foce del Cinquale va giù giù fino al Massaciuccoli pucciniano: luoghi che l’artista viareggino ha sublimato con una pittura lineare, direi autonoma, posti ha respirati (mi si passi il termine) con quella poesia avvincente di spazi scelti per lavorare nelle giuste ore del giorno, e soprattutto in momenti poco frequentati d’ottobre, o invernali, anche se nel tutto hanno convissuto nella sua espressione i “notturni”.

Ha usato la parola versiliesi, per distinguere i lavori cupistiani dagli altri, non meno significativi, denominati romani e veneziani, che meritano d’essere letti alla pari essendo in perfetta sintonia, che però hanno una sorta di diversificazione dovuta ai diversi ambienti e momenti, un po’ come le stagioni di un altro pittore innamorato a oltranza di Viareggio, Moses Levy (1885-1968).

Più e meglio di me hanno già scritto vari colleghi dei quali non sto qui a ripetere i nomi, anche se un’ottima chiave di lettura – nel caso di un’esaustiva, completa pubblicazione che raccolga sia gli oltre mille dipinti prodotti, sia le recensioni e tutto ciò che è stato già fissato –
sarebbe la testimonianza del versatile giornalista Umberto Guidi col quale ho parlato dell’artista alcune volte, non ultimo un incontro al Gran Caffè Margherita di Viareggio poco tempo fa.

Torno al dunque, non tanto per esimermi dalle citazioni, alcune ben articolate e inserite nella monografia del 2008 contenente un saggio critico a firma di Costanzo Costantini opportunamente titolato “I paesaggi di Michelangelo Cupisti”, bensì per il fatto che penso che su questo pittore non si sia fino ad oggi scritto abbastanza, pur se non è sicuramente facile entrare totalmente nell’“Io” d’ogni creativo.

Il suo costante, fascinoso viaggio, ha una sicura coerenza intellettuale, ben chiara persino se si osserva anche soltanto la parte alta dei suoi quadri: il cielo.

“Se vuol subito capire la sensibilità di questo artista, guardi i cieli”:
l’ho detto a una signora assai interessata che ne guardava estasiata oli su tela e su tavola tipo “Figure sul mare”, “Marina d’inverno”… nel corso di una sua mostra. Sì, se in perfetta tranquillità ci si mette a osservare anche solo la parte alta – il cielo – di ciascun rettangolo magico, scopriremo la serenità, la tranquillità, vale a dire quel positivo distacco di Michelangelo Cupisti dall’oltre frettoloso e caotico pulsare di tanta parte della nostra società.

Riesce, è cioè riuscito sempre a raccontare il tempo, a gestire con linearità profonda e onestà intellettuale qualsivoglia tema affrontandolo e mettendolo pienamente in essere.

Il cielo, grigio o azzurro pieno, nuvolato dove convivono elementi violacei e rosati, dove il giallo s’esalta, rossastro nei tramonti, bluastro (mai nero) nelle notti dove il pensiero si perde… svela la continuità d’un artista mai inquieto, il cui sentimento dell’esistere s’è palesato in modo fluido senza interessarsi all’apparire, ben lontano dalla giornaliere forzature alle quali siamo troppo spesso abituai a convivere.

Sfogliando l’antologia della sua poesia dipinta, il mio pensiero va a trascorsi momenti giovanili, quali – ad esempio – il vociare unito alla gioiosa fatica dei pescatori alla sciabica lungo l’arenile di Fiumetto, a poche decine di metri di quel parco de “La Versiliana” (noto per i trascorsi dannunziani, di Carlo Carrà, di Giuseppe Viner, di Curzio Malaparte…, ma pure per certi incontri musicali impegnati e di contenuto) assai conosciuto da Michelangelo Cupisti.

Rammento – e come non potrei? – il fremito lacustre mattiniero e d’altra ora del Massaciuccoli di cui ho fatto cenno, che ha dato vita a oli su tela e su tavola del Nostro, autore di “nature morte” di rilievo fermate con la bellezza di una pennellata fresca e decisa senza dubbio per definire intimi momenti di riflessione.

Le architetture romane, sublimate con un segno/racconto spontaneo e lirico, la dicono poi lunga sulla sua lettura del contemporaneo, cioè a dire del Campidoglio e di Piazza Navona…: esse ci presentano un pittore a tutto tondo rigoroso e lirico e soave nella cosiddetta “musicalità” (un termine che gli è congeniale, io credo), nei toni lucenti e dolcissimi che in più casi coinvolgono, persino ammaliano…”.

Lodovico Gierut

Critico d’arte